The Boy and the Beast

Evento speciale di soli due giorni (dopo l’anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2015), il 10 e l’11 maggio 2016, grazie alla lungimiranza di Lucky Red, distribuzione da sempre attenta al cinema asiatico di alto livello, The Boy and the Beast (Bakemono no ko) è l’ultimo lungometraggio del pluripremiato regista giapponese Mamoru Hosoda (Summer Wars, Wolf Children), considerato ufficialmente l’erede spirituale del geniale e visionario Hayao Miyazaki. 
Questo esperto pittore ad olio, formatosi all’Accademia delle Belle Arti di Kanazawa (capitale della prefettura di Ishikawa e sito protetto Unesco), ci regala una fiaba contemporanea di struggente bellezza, la cui visione è imperdibile.

Il film narra la storia del piccolo orfano Kyuta che vaga, solo ed immensamente triste, per le strade di Shibuya sino all’istante in cui, come per incanto, verrà ammesso per caso (ma come lo Zen ci insegna, il caso non esiste) nel fantastico mondo delle belve, in cui un gigantesco e burbero orso guerriero (dal cuore di platino) di nome Kumatetsu sta lottando alacremente per diventare Gran Maestro di arti marziali tentando, con risultati assai deludenti, di sconfiggere il suo più acerrimo e talentoso avversario, il famoso quanto ammirato Maestro Iozen.

Scopriremo insieme ed attraverso gli occhi dell’inizialmente gracile ma ipercombattivo Kyuta che il rapporto allievo-maestro è sempre reciproco e non v’è crescita dell’uno senza progresso dell’altro. E’ proprio Kaede, il saggio monaco del villaggio, a rimarcare l’insensatezza dell’iniziale metodo di insegnamento del burbero ed infantile, quanto massiccio e forte, maestro di Kendo Kumatetsu che, proprio grazie al rapporto quotidiano con il suo primo e più improbabile allievo, crescerà sino a diventare qualcosa di assolutamente e positivamente imprevedibile. Summa dei principi fondamentali delle arti marziali contemporanee e splendido esempio animato di quale sia, debba essere, il perfetto rapporto padre-figlio, The Boy and the Beast conquista il cuore e lo sguardo dello spettatore sin dal primo istante e di fronte alla struggente perfezione di alcune sequenze, anche gli spettatori più smaliziati faranno fatica a trattenere le lacrime.

Mamoru Hosoda è arcinoto come autore dei Digimon (dal 1999 al 2003) ma la sua notorietà è decisamente cresciuta con la serie Samurai Champloo (2004-2005) e con titoli ormai cult come The Girl Who Leapt Through Time (2006) e Wolf Children (2012). La sua arte rappresenta un drammaturgico contraltare tematico rispetto alle favole dello Studio Ghibli fondato dal maestro Miyazaki perché affronta principalmente i temi del mondo adulto piuttosto che le suggestioni dei più piccoli. Anche in quest’ultima prova, la storia (scritta, con rara sensibilità, dallo stesso Hosoda) analizza la traumatica transizione tra l’infanzia e l’adolescenza, rappresentata graficamente dal passaggio che unisce il mondo degli umani, la tentacolare ed ipermoderna metropoli di Shibuya, a Jutengai, il Regno delle Belve. Vivremo, infatti, anche i prodromi della prima storia d’amore tra i due protagonisti nell’Oscar giapponese 2016 come miglior Film di Animazione, incarnata dalla bellissima e timida studentessa Hyakushubo che, insieme al ritrovamento del proprio padre biologico, dal quale credeva di essere stato abbandonato per mancanza di affetto, colmerà il buco nero nel cuore di Kyuta riconciliandolo con il mondo degli umani dal quale si è sempre sentito rifiutato e sostenendolo nella sua epica battaglia contro l’Oscurità che cerca di inghiottire l’intero pianeta (Michael Ende docet), incarnata da una favolosa e negativamente dirompente versione nipponica di Moby Dick.

Come se tutto ciò non bastasse, come un potente uragano, a spingerci verso il cinema più vicino, è quasi inutile, viste le premesse, sottolineare l’ovvio: siamo di fronte ad un livello di grafica e cromatismo tra i più belli di sempre. Il film avviluppa lo spettatore, portandolo fisicamente nel bimondo di Kyuta, con sequenze (dalla più gioiosa alla più dark) esteticamente e fotograficamente impeccabili ma sempre finalizzate alla morale che le sottende.

Con le parole del maestro Hosoda: “Penso ai film come a ritratti che mostrino gli istanti del cambiamento. Cambiare significa crescere e tale cambiamento possiede il medesimo dinamismo insito nel cinema. Il più brillante esempio di questo dinamismo del cambiamento è rappresentato dai bambini. Questa è esattamente la ragione per cui empatizzo e desidero supportare coloro che posseggono tale tipo di indipendenza e risoluzione, coloro che desiderano dare, con le proprie mani, forma al proprio futuro. E’ la solidarietà tra questi individui che ritraggo nei miei film e vorrei che noi tutti potessimo condividerla, dirigendoci verso il futuro insieme a loro”.