The Hateful Eight

The Hateful Eight è una bomba a orologeria, un crescendo di tensione senza soluzione di continuità, forse, alla pari con Django Unchained, il miglior lavoro di Quentin Tarantino. Il suo magistrale “odioso ottavo” film, girato in pellicola 70 millimetri versione deluxe, è un omaggio alla contraddizione: minimalista e barocco, ironico e austero, suggestivo e folcloristicamente violento. Questi elementi, così incompatibili tra loro, nelle mani di qualsiasi altro regista sarebbero stati difficilissimi da amalgamare ma, con Tarantino, anche l’impossibile diventa possibile, o meglio:  diventa cinema con la C maiuscola.

Il gusto per il contrasto si presenta chiaro fin da subito. La telecamera, partendo infatti da un dettaglio a malapena distinguibile, allarga poi il suo occhio fino a una sconfinata distesa innevata, ma ecco che nel giro di pochi istanti l’ambientazione cambia di nuovo e, dallo stretto spazio di una diligenza lo spettatore verrà catapultato in una realtà ancor più claustrofobica: la locanda di Minnie. Sì, perché eccetto che nei primi venti minuti, il resto del film si svolge all’interno di una fatiscente baracca di legno in mezzo al nulla.

Siamo nel Wyoming qualche anno dopo la Guerra Civile, dove, a causa di una bufera di neve, sette uomini e una donna trovano riparo in una vecchia bettola isolata dal mondo. Non sono dieci come i piccoli indiani di Agatha Christie, ma sono tutti armati fino ai denti e con il cappello da cowboy ben calato sulla testa. Ciò che potrà succedere lo lascio immaginare!

La storia è semplice, i personaggi no. In quel microcosmo a porte chiuse Tarantino tratteggia i protagonisti in ogni possibile sfumatura, ed è come se la stessa tempesta che imperversa senza tregua si rispecchi nei loro rudi e ambigui sguardi. Gli “hateful eight”, con il loro bagaglio interno di bugie, di segreti e misteri, si comportano come otto selvagge matrioske: forse nessuno è chi dice di essere.

L’immenso pregio di Quentin Tarantino sta comunque nei dialoghi. Si esce dalla sala quasi ubriacati dalle parole che penetrano la mente come stilettate affilate, monologhi forti carichi di significati politici, frasi incisive su razzismo e schiavitù, tradimento e tornaconto personale, giustizia di stato e quella fai da te, il tutto accompagnato da travolgente ironia: una geniale metafora western del mondo contemporaneo. Ma il regista texano riesce a catturare l’attenzione del pubblico anche solo attraverso un banale stufato della mamma, un cappello non tolto, una sudicia caffettiera: ecco dunque, con lui,  l’insignificante mutarsi in significativo, come i primi due cavalli che tirano la diligenza, uno bianco e l’altro nero. No, in The Hateful Eight nulla è lasciato al caso, lo stesso pianoforte sgangherato, e la tromba che si intravede appena, richiamano gli strumenti musicali utilizzati dal Maestro Ennio Morricone per comporre una colonna sonora da Oscar, una melodia indimenticabile, memorabile come la pellicola.

Un film accuratissimo, in cui le scene splatter rientrano perfettamente nel contesto visivo, dove, per la riuscita dell’opera, la fotografia assume un ruolo determinante. Ancora una volta Tarantino non fa che dimostrare di saper dirigere i suoi attori in modo ineccepibile; il cast al completo è straordinario, un manipolo eccezionale di interpreti composto da Kurt Russel, Samuel L. Jackson, Walton Goggins, Tim Roth, Michael Madsen, Bruce Dern, Demian Bichir e dalla stratosferica Jennifer Jason Leigh.

The Hateful Eight, nonostante le sue oltre tre ore di durata (in digitale 2h47), è bello, fluido e possente, un ordigno a miccia lunga carico di tritolo: lento a esplodere, ma con una deflagrazione micidiale. 

Tarantino, “tarantizzato” oltre ogni misura, consiglia di ammirare questa sua ultima fatica in versione 70mm, e come dargli torto? Per i suoi fan sarà un obbligo piacevole, per tutti gli altri - forse -  una lieve ma prolungata tortura!