Toxic jungle

Il tizio che, durante i titoli di testa, si trova sull’ala di un aeroplano ad alta quota per poi volare via, richiama in un certo senso alla memoria la situazione che si trovava al centro dell’episodio diretto da George Miller per il lungometraggio collettivo Ai confini della realtà, del 1983.

Del resto, non risulta assente neppure una sequenza notturna di pioggia nel bosco che sembra quasi uscita da un film dell’orrore nel corso della oltre ora e venti di visione messa in piedi dal peruviano classe 1972 Gianfranco Quattrini, al suo secondo lungometraggio dopo Chicha tu madre, sfornato nel 2006 in seguito ad oltre dieci anni di militanza nell’universo degli short.
Lungometraggio tramite cui intende raccontare la storia di due fratelli legati per sempre dalla musica e costantemente alla ricerca del loro destino e della guarigione nel cuore della Selva Amazzonica.

I fratelli Diamond e Nicky Santoro, per la precisione, rispettivamente incarnati da Robertino Granados e Manuel Fanego e protagonisti di un biopic immaginario e fortemente immaginifico – ma guardante in un certo senso ai realmente esistenti Luca e Andrea Prodan – che li vuole pionieri del rock argentino nella psichedelica onda dalla fine degli anni Sessanta all’inizio del decennio successivo.
Non a caso, sono proprio le sonorità distorte appartenenti a quel controverso periodo storico ad accompagnare spesso la vicenda che, partendo da un Diamond tornato ai giorni nostri nella foresta per intraprendere il viaggio interrotto da Nicky e liberare il fantasma di una musica intrappolata nel cuore, si costruisce alternando di continuo presente e passato.

Presente e passato atti a far ripercorrere allo spettatore la meteora di questi Doors tropicali che passarono dal singolo d’esordio trasmesso in radio al successo del primo disco, predecessore di un secondo rimasto incompiuto in un momento di vita tempestato di concerti, sesso con nudissime ragazze ed esperienze psicotrope.

Man mano che viene citato verbalmente anche Mick Jagger e che qualcosa ricorda vagamente fatti legati al tragicamente scomparso chitarrista stonesiano Brian Jones; senza dimenticare il richiamo della magica Ayahuasca, a proposito di cui il regista spiega: “La gente arriva ad Iquitos da ogni parte del mondo per vivere l’esperienza del rito che ruota attorno a questa pianta sacra. Durante la cerimonia, i canti dello sciamano rappresentano il veicolo per compiere un viaggio di esplorazione interiore che cancella i limiti tra realtà e allucinazione, tra la vita e la morte”.

E sorge spontaneo pensare che, forse, è proprio nella voluta intenzione di ricreare questo effetto “allucinogeno” che la sua opera finisce per rivelarsi piuttosto confusa in più punti... pur non rappresentando, comunque, il motivo valido a giustificarne la fiacchezza e la noia imperanti.