‘Venghino Signori, venghino!’, The Greatest Showman e Hugh Jackman sono arrivati

Forse non tutti sanno che, dopo 146 anni di attività, il 21 maggio 2017 il Circo Barnum ha definitivamente calato il sipario. Già, perché in un’epoca come la nostra dove le bizzarrie si incontrano ad ogni angolo di strada, non è più così facile far riempire di stupore gli occhi di un bambino. Fatto sta che - sarà semplice coincidenza o forse abile operazione di marketing - a distanza di soli sette mesi dalla sua chiusura, il 25 dicembre, giorno indimenticabile soprattutto per i più piccini, uscirà nelle nostre sale The Greatest Showman, musical ispirato proprio alla vita di Phineas Taylor Barnum: un atto d’amore verso il ‘diverso’ che troverà il suo clou nella toccante This is me, intonata con forza dalla ‘donna barbuta’. Ora, se da un lato il debutto alla regia del giovane australiano Michael Gracey - noto per aver diretto importanti spot pubblicitari - tecnicamente parlando è da considerarsi un esordio da fuochi pirotecnici nonché un incipit ‘col botto’ nello sfavillante mondo della celluloide, dall’altro potrebbe creare qualche sussulto di sdegno. Procediamo però con ordine.

Ambientato nel 1840, il film si apre con Hugh Jackman/PT Barnum che, in un lungo cappotto rosso fuoco e un nero cappello a cilindro, si staglia al centro della pista circense offrendosi agli occhi dello spettatore come uno spavaldo personaggio teatrale... un Maestro di Cerimonie che riporta alla mente quello del mitico Cabaret di Bob Fosse. Ma The Greatest Showman, al contrario dell’opera di Fosse, è un prodotto spudoratamente familiare cosparso da chili di zucchero filato dove di sexy v'è soltanto l’irresistibile presenza di Jackman. Strutturato come un musical di Broadway, il superlativo lavoro del filmmaker di Melbourne racconta la storia, più che romanzata, di un individuo nato dal nulla che grazie alla fervida immaginazione, all’innata capacità imprenditoriale e all’incessante volontà di perseguire i propri sogni darà vita a ciò che oggi chiamiamo show business. Inizialmente, siamo circa nel 1820, Gracey mostra al pubblico la travagliata infanzia del protagonista – un ragazzo figlio di un sarto che rimasto orfano di padre si adatterà ad eseguire umili lavori – per presentare poi un PT Barnum ormai cresciuto che riuscirà a sposare la donna da sempre amata, la bella Charity, figlia di un ricco uomo d’affari contrario al loro matrimonio. In breve tempo alla coppia nasceranno due figlie e cresceranno i debiti, e sarà per questi motivi che PT userà con scaltrezza false garanzie per ottenere un prestito bancario e aprire un museo di curiose morbosità: un raduno di freaks fatti uscire dai loro tetri nascondigli.

Allacciate le cinture e tenetevi saldi, perché è in questo preciso istante che il film decolla verso un viaggio che non vorreste finisse mai. I colori sgargianti dei costumi, disegnati da Ellen Mirojnick (Logan Lucky) ed esaltati dalla splendida fotografia di Seamus McGarvey (Animali Notturni), e i pochi ma efficaci effetti speciali fanno sì che The Greatest Showman trascenda il biopic classico per divenire altro: un mondo quasi fantastico. Le coreografie scoppiettanti, le musiche pop a firma del duo Benj Pasek e Justin Paul (La La Land), la bravura dell’intero cast (Michelle Williams, Zac Efron, Zendaya, Rebecca Ferguson, Keala Settle, Sam Humphrey...) capitanato da uno stratosferico Hugh Jackman che, appena dismessi i panni di Wolverine e a distanza di 5 anni da Les Misérables si dimostra un vero animale da palcoscenico, sono tutti elementi fondamentali per decretare il meritato futuro successo di una ‘pellicola’ che fa della diversità il suo inno di battaglia. Eppure…

Eppure, è proprio nella messa in scena della celebrazione di PT Barnum che l’ode all’eguaglianza stride, creando qualche fastidioso prurito. Il problema sta nel fatto che la vita reale dell’inventore dell’enorme circo a tre piste, il The Greatest Show on Earth da cui il film prende titolo, non fu esattamente una crociata in difesa dei più deboli. Nel XIX secolo, periodo in cui i famigerati freakshows richiamavano la morbosità di numerosissimi spettatori, Barnum non fece altro che sfruttare a proprio vantaggio quei poveri ‘fenomeni da baraccone’ o cosiddetti ‘mostri’, termine da lui usato in diverse occasioni, di cui nell’opera di Gracey non c'è però mai traccia. Certo, PT non fu soltanto un mistificatore (tra le sue attrazioni più popolari trovarono posto La Sirena delle Isole Figi e il Gigante di Cardiff) o colui che espose al pubblico ludibrio indigeni smarriti, bambini nani, uomini affetti da gigantismo, gemelli siamesi e afroamericani menomati dalla nascita dei quali poter sottolineare l’inferiorità razziale. No, Barnum è stato anche lo ‘Shakespeare della pubblicità’ - come lo definirono ai suoi tempi -, un discreto scrittore e l'abile politico a cui la città di Bridgeport deve l'ottenimento di grandi benefici, quale ad esempio la costruzione di un ospedale.

Circhi e freaks hanno da sempre ispirato molti registi, basti pensare a Santa Sangre di Alejandro Jodorowsky, a The Elephant Man di David Lynch, o a Freaks, capolavoro assoluto di Tod Browning. A differenza dei precedenti titoli, The Greatest Showman (tre nomination ai prossimi Golden Globes: Miglior film musicale o commedia, Migliore attore in un film musicale o commedia, Migliore canzone originale) è un lungometraggio che abbaglia e delizia, un grandioso spettacolo dotato di una colonna sonora travolgente e contagiosa dove il dramma della diversità riesce ad apparire più leggero, ma non per questo meno incisivo: un magico momento di unione a suon di musica. Ecco, l’importante sarà dunque godere appieno di questi imperdibili 105 minuti di bel cinema, senza però dimenticare mai chi Phineas Taylor Barnum sia realmente stato.