Zeta

È una didascalia riportante un passaggio della Heroes di David Bowie ad aprire il terzo lungometraggio diretto dallo specialista in videoclip Cosimo Alemà, dopo i thriller At the end of the day – Giorno senza fine (2011) e La santa (2013).

Con uno sguardo rivolto più a 8 mile (2002) di Curtis Hanson che a Straight Outta Compton (2015) di F. Gary Gray, però, stavolta niente fotogrammi a base di tensione ma la storia di amore e di amicizia che rispecchia quasi la vera vita del protagonista Diego Germini, meglio conosciuto come IZI.

Protagonista cui fa riferimento il titolo, pseudonimo dell’Alex che, tra lavoro al mercato e casermoni di periferia, vive sognando l’hip hop; fino al giorno in cui il suo desiderio si trasforma in realtà, catapultandolo nell’universo musicale in cui non può fare altro che impegnarsi per dimostrare quanto vale.

Del resto, sorvolando su un’apparizione televisiva di Rocco Hunt, da Clementino a Tormento, passando per Baby K, non pochi sono i nomi della scena rap tricolore reclutati nella circa ora e quaranta di visione inizialmente accomunabile, in un certo senso, ad una attuale rilettura maccheronica del biopic valensiano La bamba (1987) di Luis Valdez, tanto più che i due film sfruttano entrambi un povero personaggio centrale sulla strada verso il successo.

Personaggio che si destreggia tra il legame con gli inseparabili Gaia alias Irene Vetere e Marco, ovvero lo Jacopo Olmo Antinori di Io e te (2012), e i lussuosi ambienti tempestati di denaro, cocaina e ragazze oggetto facilmente pronte a denudarsi per squallidi produttori discografici.

Man mano che apparizioni di Fedez, J-Ax, Metal Carter (venditore di panini!) e Rancore si alternano nello svolgimento della vicenda, non priva di spaccio di droga e di tragedia pronta a spuntare da dietro l’angolo.

Vicenda il cui principale intento è ribadire che non conta dove si arriva, ma come ci si arriva; rivelandosi, però, il semplice pretesto per approdare alla lunga esibizione conclusiva e fare la gioia dei seguaci irriducibili della “parlantina in note”.

Gli stessi che, magari, riescono anche nell’impresa di sorvolare sul non sempre coinvolgente ritmo narrativo (a tratti da fiction destinata al piccolo schermo) di un musicarello 2.0 non pessimo, ma trasudante cliché e penalizzato da un certo eccesso di carne al fuoco tirata in ballo per camuffare la pochezza dello script.